Quando si analizzano gli effetti dei terremoti poco profondi sulle strutture in superficie è fondamentale conoscere le modalità con le quali il segnale sismico si sprigiona alla sorgente. Un interessante approfondimento del Prof. Giovanni Falsone (professore ordinario, Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Messina) disponibile su INGENIO.
Cerco sempre di spiegare che la magnitudo da sola non basta a descrivere l’effetto di un terremoto sulle strutture, e che anche la profondità dell’ipocentro è un dato importante da conoscere.
Anche per evitare le infelici espressioni del tipo “in Giappone un terremoto di questa magnitudo non avrebbe provocato danni…“.
Infatti, è evidente che all’aumentare di tale profondità corrisponde una maggiore dissipazione di energia nei vari strati compresi tra il punto focale e la superficie; quindi, a parità di magnitudo, gli effetti in superficie saranno più deboli.
Dall’esame della Tabella (riportata nell’articolo), si osserva che, per tutti i terremoti presi in esame, la profondità è minore di 10 km, con un limite inferiore per Casamicciola (1.7 km) e un limite superiore di 8.3 km per il più intenso dei terremoti dell’Aquila del 2009.
Nella tabella è riportato un secondo terremoto dello stesso sciame sismico, avente magnitudo un po’ più bassa e caratterizzato da una profondità maggiore (17.1 km).
Il limite dei 10 km è significativo perché, fin dagli anni novanta, i codici statunitensi (UBC, 1997) definivano i sismi con profondità inferiore a tale limite come “near-source (o near-fault) earthquakes”, nell’articolo sono definiti “terremoti poco profondi”.